Nasciamo soli, e ineluttabilmente, moriamo soli.
In mezzo, la vita.
Di per sé la vita è mera esistenza. Cresciamo, ci nutriamo, dormiamo, ci riproduciamo, respiriamo.
Il senso, il fine ultimo, il valore della vita, risiede nelle nostre passioni, nelle nostre emozioni, anche nel nostro “spirito di sopravvivenza”.
Qualcosa ci spinge a “vivere” e non semplicemente “esistere”.
Tra le cose più belle, forse, c’è l’amore. La compagnia e l’affetto di un’altra persona, o di più persone, con le quali condividere le gioie e i dolori, le bellezze del mondo e per sopportarne insieme le bruttezze. Una famiglia, un’amicizia, una compagna o un compagno di vita.
La solitudine e la mancanza d’amore possono essere talvolta armi distruttive per lo spirito, la mente e il corpo.
Talvolta si raggiunge la follia. Chi non è solo, relativizza le proprie emozioni, chi è solo, interiorizza, “radicalizza”, e talvolta, scoppia.
Siamo nel 1978. Jeffrey Dhamer ha 18 anni quando raggiunge il suo punto di rottura. La vittima è Steve Hicks, 19 anni.
Dhamer è omosessuale, da tempo schiavo dell’alcool e di fantasie erotiche indicibili, ma soprattutto è solo, totalmente.
I genitori hanno divorziato qualche tempo prima. Entrambi se ne vanno, abbandonando Jeffrey in una casa isolata, senza nessuno di familiare nei dintorni.
Solo, del tutto solo.
Il completo abbandono porta Jeffrey a cercare la compagnia di qualcuno, ma a non sopportarne il distacco.
Vuole una persona per sé, che non se ne vada mai, che non lo lasci per niente al mondo.
Invita Steve per un paio di birre e due chiacchiere, ma quando logicamente il ragazzo dice che si è fatto tardi e deve andarsene Jeffrey lo aggredisce, e lo strangola.
Rimane un cadavere di cui disfarsi.
Jeffrey seziona il corpo di Hicks in più parti, mette i pezzi dentro due sacchi della spazzatura ed esce in auto, in cerca di un posto dove gettare il tutto. E’ anche piuttosto ubriaco alla guida e non fa molti chilometri prima che una pattuglia lo fermi.
Il male, la beffa del destino, aleggiano nell’aria, e poggiano la loro mano rassicurante, sulle spalle dell’assassino.
Dhamer convince la polizia che quei sacchi contengano spazzatura e se ne va, con una semplice multa per eccesso di velocità.
E’ notte fonda, è ubriaco e ha un cadavere in pezzi sui sedili posteriori, ma è libero di tornarsene a casa.
Quello di Steve Hicks è “solo” un omicidio, un brutto omicidio, ma Dhamer con lui è stato tanto violento quanto veloce.
Da qui in poi andrà tutto molto peggio. Seguiranno altri sedici omicidi fino al 1991.
Jeffrey segue un copione praticamente identico per ogni uccisione. Vuole compagnia e la ottiene. Invita a casa le vittime per bere birra, fumare spinelli e ascoltare musica. Ma il tempo prima o poi scade, e nessuno vuole trattenersi oltre quello che sembra un piccolo piacevole “party” improvvisato. Potrebbero scambiarsi il numero, diventare amici o amanti, rivedersi, ma Jeffrey ogni volta arriva al collasso delle proprie emozioni.
Non esiste che chi entri in casa sua, ne possa uscire. Non deve più succedere di rimanere solo. Li colpisce, li strangola o li accoltella. Poi fa sesso coi cadaveri e li smembra.
In un primo tempo ne getta via i resti, poi la compulsione sale di un altro gradino e Dhamer inizia a conservare parti del corpo in frigorifero, o a scioglierli nell’acido, a casa propria. Alcuni non li conserva, se li mangia.
Jeffrey Dhamer, meglio noto come “il cannibale di Milwaukee” è totalmente in balia del delirio. Ma c’è un particolare in questa storia agghiacciante che chiarisce il senso di tutto, se di un senso si può parlare.
E’ alquanto paradossale che l’assassino uccida le persone che vogliono abbandonarlo. Una volta cadaveri non possono comunque fargli compagnia. Infatti per Dhamer, la morte delle sue vittime è “collaterale”. Il suo fine è quello di avere con sé un uomo totalmente consenziente e fedele; un’automa alle sue dipendenze. Per arrivare a questo, Jeffrey dopo un primo stordimento di chi ha tra le mani, tenta di iniettargli dei liquidi nel cervello, praticando fori nel cranio con un trapano. Vuole privare il proprio compagno della sua volontà, del libero arbitrio, perché forte di questi due elementi, prima o poi, ognuno potrebbe allontanarsi. Chiaramente a seguito di questi esperimenti, sopraggiunge la morte. Tutto da rifare, esperimento fallito, ma con possibili margini di miglioramento. Come un classico “scienziato pazzo”, Dhamer ci riprova ancora e ancora.
Dopo 13 anni e 15 omicidi, nel 1991, accade un fatto tra i più clamorosi della storia del crimine.
Konerak Sinthasomphone, un giovane di origini asiatiche, viene adescato da Dhamer.
Una volta nell’appartamento, il rito si ripete.
Jeffrey droga la sua vittima e gli inietta acido e acqua calda nel cervello, attraverso dei fori nel cranio. Sulle prime Konerak appare ormai esanime.
Jeffrey esce momentaneamente a bersi una birra in un pub, ma quando torna vede il ragazzo barcollante e confuso, in mezzo alla strada.
Tre donne inveiscono contro Dhamer che tenta di riportarselo a casa. Arriva la polizia, ma Jeffrey, calmo e impassibile, li convince che Konerak è il suo compagno, che è ubriaco, che hanno avuto una lite, e ora se ne tornano a casa. I poliziotti accompagnano Jeffrey fino all’interno dell’appartamento. Sono ammorbati immediatamente da un forte e strano odore e danno un’occhiata in giro. Non aprono il frigorifero, non si curano dei grossi bidoni di acido nel salotto, non accendono nemmeno la luce della camera da letto, e se ne vanno, lasciando Konerak tra le braccia del killer, che un’ora dopo, lo finisce iniettandogli una nuova dose di acido e acqua calda nel cranio.
Nel buio dell’altra stanza, giace il corpo dissezionato di una seconda vittima.
il 22 Luglio del 1991, si conclude questa assurda vicenda. Tracy Edwards, la diciottesima potenziale vittima del cannibale di Milwaukee, riesce a scappare dalla casa dell’orrore e dopo pochi metri incontra una volante della polizia. Questa volta non basta il savoir-faire di Dhamer. Scattano le manette.
Jeffrey Dhamer viene condannato a 15 ergastoli, ma dopo 3 anni, in carcere, viene ucciso, colpito alla gola da Christopher Scarver, un detenuto affetto da schizofrenia. Il mostro è morto.
Come di solito avviene, come vogliamo fare anche noi, si cercano le ragioni di tutta questa atrocità. Qui il caso è lampante. Un “cocktail” di alcool, disturbi mentali e solitudine. L’abbandono della famiglia che porta Dhamer, a gran velocità verso il “fattore di stress”.
Ci sono anche altri aspetti. La madre di Jeffrey fumava, assumeva tranquillanti e antidepressivi, anche durante la gravidanza. Potrebbe essere stato nocivo per il feto. In giovanissima età, Dhamer viene operato ai genitali ed ha una lenta e dolorosa convalescenza, che supera da solo, causa l’anaffettività dei suoi familiari e l’assenza di dialogo.
C’è come al solito un trauma fisico, uno mentale e forse addirittura uno “pre-natale”.
In questa storia però ci soffermiamo sul significato e la conseguenza dell’abbandono. Fino ai 18 anni, due genitori distaccati, poi la completa assenza. Una dipendenza dall’alcool per colmare il dolore, e la vergogna di essere un “diverso” a causa della propria omosessualità.
Il disagio di dover superare tutto senza aiuto, senza conforto.
Molti nelle stesse condizioni si rialzano, combattono e si conquistano il loro spazio nel mondo dove vivere in maniera serena.
Jeffrey Dhamer no. Lui ha scatenato l’inferno, in cerca di amore.