Not guilty by reason of insanity

Il sociologo francese Émile Durkheim sosteneva che “Non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un reato, ma è un reato perché lo biasimiamo”

E’ importante capire che la risposta della collettività al cospetto di uno stesso atto,varia nello spazio e nel tempo: si chiama “relatività” dell’atto deviante rispetto all’ambito geografico, al contesto storico/politico/sociale e alla situazione.

Quello che maggiormente ha stimolato e continua a stimolare la nostra ricerca, verte in gran parte su questo punto.
Prima di puntare il dito contro un “criminale” ci sono una serie infinita di variabili, di motivi da esaminare, e da comprendere.
E’ logico e assolutamente condivisibile dal nostro punto di vista che chi, nello specifico, commetta un omicidio, debba essere punito e allontanato dalla società. Stiamo però parlando di noi, adesso, qui. Il male non è e non può essere percepibile in maniera oggettiva nemmeno in casi estremi.

Ci sono ancora moltissimi paesi del mondo dove rimane in vigore la pena di morte. Dove, in sostanza, lo stato uccide chi ha ucciso.
Omicidio “giustificato” e a norma di legge.

All’opposto, troviamo la non perseguibilità di un crimine identificata con la frase “not guilty by reason of insanity”. Ciò può verificarsi a causa di un disturbo mentale, quando l’imputato non comprende che quello che stava facendo era illegale.
A causa di un disturbo mentale, quando l’imputato non sa cosa stava facendo.
A causa di un disturbo mentale, quando l’imputato è stato costretto a commettere il crimine da una forza irresistibile.

Le domande che ci poniamo sono: chi ha stabilito tutto questo? chi ha costituito il corretto metro di giudizio per condannare o assolvere qualcuno? Chi siamo noi per giudicare? Che cosa sono il bene e il male, la verità, la sanità mentale e la malattia? Esiste la “normalità”?
E poi c’è la domanda a noi più cara. Perchè?

La ragione del male, la base fondamentale della nostra ricerca.

Partiremo da quest’ultimo punto, analizzando nel profondo un tema a noi molto caro: il passato degli assassini seriali.
Un vecchio proverbio recita “la violenza genera violenza”. Non è sempre vero, ma diversi autori che si sono occupati dell’omicidio seriale hanno sottolineato l’importanza delle esperienze traumatiche subite dal soggetto in ambito sia familiare che extrafamiliare, durante l’infanzia e l’adolescenza, per spiegare il manifestarsi del comportamento omicidiario seriale.

Esaminando la casistica, si nota che molti assassini seriali rientrano in una delle seguenti categorie:

figlio illegittimo;
figlio di un genitore abusivo, di solito il padre, mentre l’altro è sottomesso, spesso la madre (anche se è possibile il quadro opposto);
orfano di uno o entrambi i genitori;
infanzia caratterizzata da violenze fisiche, psicologiche e/o sessuali, perpetrate da uno o da entrambi i genitori.
L’infanzia è un momento fondamentale per la salute fisica e mentale del futuro adulto ed è molto importante la formazione di un buon “legame di attaccamento” fra il bambino e chi si prende cura di lui.
La frantumazione o la mancata formazione del “legame di attaccamento”, può produrre un bambino – ed un futuro adulto- incapace di provare empatia, affetto o rimorso per un altro essere umano, caratteristiche queste comuni anche agli assassini seriali.

Vi diamo appuntamento alla prossima settimana, dove analizzeremo il caso di Henry Lee Lucas, la cui infanzia è stata forse tra le più atroci e che ha portato a conseguenze catastrofiche.