La solitudine genera mostri difficili da sconfiggere.
Quando ci interessiamo alla storia di un killer seriale, salta subito all’occhio che,
a seconda del luogo in cui è nato e di ciò che lo circonda, dalla nascita all’età adulta,
l’assassino opera in maniera diversa, o almeno per fini diversi. Ma ci sono cose che accomunano tutti i serial killer;poco importa se siano americani, inglesi, cinesi o italiani. Lo abbiamo già visto: la violenza domestica, l’assenza o l’oppressione famigliare sono spesso alla base di una destabilizzazione psicofisica che porta al caos, alla follia, e al delitto.
La solitudine è un’altra di quelle “bombe ad orologeria” che ticchettano in una mente compromessa e deviata. Lo abbiamo visto nel caso di Jeffrey Dhamer,
oggi si parla di Giancarlo Giudice.
Il copione si ripete per l’ennesima volta. Giancarlo nasce a Torino, in una famiglia disastrosa; il padre è un operaio della Fiat che dilapida i suoi stipendi in alcool.
La madre è gravemente malata. Questa malattia le impedisce di occuparsi del figlio, così Giancarlo è costretto a passare anni in diversi collegi.
In uno di questi, a 13 anni, Giudice viene informato della morte della madre.
E’ un colpo brutale. Il colpo di grazia a un ragazzino già pesantemente introverso e abbandonato a se stesso, in freddi istituti diretti da suore severe, che di certo non dispensano l’adeguato affetto che un bambino necessita.
Giudice viene informato dell’accaduto addirittura a funerale avvenuto. Nessun ultimo saluto alla sua mamma, né da viva, né da morta.
Passano pochi mesi e Giancarlo tenta il suicidio. La vita non ha più alcun significato. E’ solo motivo di dolore, un dolore che in assenza della madre, l’unico amore della sua vita, diventa insopportabile.
Ma il vero disastro deve ancora succedere.
Giancarlo è disperato, triste, ma non “furioso”. Ad iniettargli la miscela letale di rabbia e solitudine ci pensa il padre.
Ritira Il ragazzo dal collegio e se lo porta a casa, e fin qui nulla di male, anzi. Peccato che in pochi mesi l’uomo prende la sciagurata decisione di mettersi in casa una nuova giovane compagna. Giancarlo non può accettare una cosa simile. Sua madre non può essere sostituita.
La situazione è critica: troppe liti, troppa tensione. Il padre di Giancarlo decide che è il momento di abbandonare quel figlio “scomodo” al suo destino e si trasferisce in Calabria con la nuova moglie.
Morirà un anno dopo, di cirrosi epatica.
Giancarlo adesso è davvero solo. Questa solitudine è concime per l’odio, l’odio linfa per la solitudine. E’ una miscela che quasi prende il posto del sangue, nelle vene di Giudice.
E ogni donna ora è un nemico mortale.
Ogni donna che assomigli a quella matrigna tanto disprezzata. Ha preso il posto della madre, ha allontanato il padre, deve pagarla.
Ma quella matrigna è molto distante. Così Giancarlo si vendica su altre persone.
E’ un “metodo” usato da altri famosi assassini seriali. Uno su tutti, Ted Bundy che, abbandonato dalla sua fidanzata, l’unico amore della sua vita, ucciderà brutalmente più di 30 donne. Non donne a caso, solo quelle che somigliano alla sua ex. Pensa di cancellare così il dolore, più e più volte. Pensa che sia la giusta vendetta.
Giancarlo Giudice non fa una cosa molto diversa. Comincia a frequentare prostitute e, quando ne incontra di un po’ più mature, con le fattezze della sua matrigna, perde la testa.
Ne ucciderà 9. Le violenta, le strangola mentre ancora continua nel coito, si disfa dei corpi gettandoli nel fiume o nelle campagne circostanti. Poi si fa più “pigro” e le lascia direttamente sul letto, nella loro abitazione, nude e senza vita. Ogni atto è una punizione, anche se indiretta, e assurda, per la donna che ha preso il posto di sua madre.
C’è dell’altro. A seguito dell’ottimo lavoro degli psicologi che interrogano
Giudice dopo il suo arresto, emerge il perché della sua assidua frequentazione delle
prostitute.
La malattia e la morte della madre hanno generato nell’assassino
la convinzione di non potere amare. Di non volere amare, perché l’amore genera solo e soltanto dolore.
Giancarlo respinge l’affetto e qualsiasi forma di sentimento fin dalla più tenera età. Non ha amici, non ha donne.
Non deve più accadere di avere un legame, perché poi finisce in tragedia, ne è certo.
Le prostitute sono perfette: le paghi e le “usi”. Non si crea nessun rapporto.
Con alcune di queste, Giancarlo sfoga semplicemente i suoi bisogni sessuali, e le lascia andare. Non è così “automatico” che le uccida o che sia violento con loro.
Il problema è che, per trovare donne “a buon prezzo”, deve necessariamente rivolgersi a quelle più brutte e vecchie, e quando somigliano alla matrigna allora è un guaio.
Accade nove volte: nove vittime, una vendetta.
Giancarlo viene arrestato con una certa facilità, sorpreso nella sua auto, pieno di macchie di sangue e oggetti compromettenti, intento a masturbarsi.
La sua pena sono 30 anni di prigione. Lui vorrebbe la pena di morte.
La sua vita non ha mai avuto nessun significato, di certo non dopo la scomparsa di sua madre.
Non ha rimorsi, non si dispiace per le sue vittime. Dirà addirittura di aver fatto “un’opera buona” per averle eliminate.
Giancarlo è il male. Tanto ne ha ricevuto, tanto ne ha restituito. Nella sua mente, è stato giusto così.